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MAGADAN, dove il sole non scalda - (2008) di Adalberto Buzzin

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Viaggio di Adalberto Buzzin

SIBERIA

Era da due anni che cercavo questo sogno, raggiungere Magadan la porta dell'inferno, in invernale attraversando la strada delle ossa, che dalla Yakutzia raggiunge l'oceano.

Arrivo nella capitale Yakutz via Venezia-Mosca-Novis e mi accorgo subito che il clima è cambiato, siamo già sui -20°; la città è tranquilla, quasi addormentata, conosco l'amico V. brava e corretta persona che mi accompagnerà in questo viaggio attraverso piste incontaminate per 2020 km che poi diventeranno 4400 km tra andata e ritorno.

La capitale è innevata per 8 mesi e più all'anno, c'è una bella atmosfera natalizia, i lineamenti somatici degli abitanti assomigliano ad un misto tra il buriato, il coreano il mongolo, ma sono molto più delicati e fini; la gente è cordiale e socievole.

Percorro e ripercorro la Uliza Lenina, la via principale della capitale, visto il museo del permafrost, il porto, completamente ghiacciato, alcuni negozi al centro, ma la mente, il pensiero, il sogno è già oltre in pista, quella pista bianca tanto amata e desiderata.

Si parte, una UAZ van a 6 posti; l'amico Ivan, guidatore e meccanico, è un ragazzone di 25 anni, dal viso simpatico e trasparente, ci fa guidare la sua UAZ per poco tempo, sembra geloso, poi lui conosce molto bene queste piste, insidiose sotto ogni punto di vista.

La prima tappa è Tontor, piccolo villaggio a 40 km da Ojmakon, il polo del freddo, dove una volta le temperature sono scese a -72° e nelle valli limitrofe anche -82°; ci sono circa da Handimga km..., la media su queste piste è sui 35/45 km/h È notte, saranno circa le 21.30 quando dopo una curva vency si accorgono che è successo qualcosa, ci fermiamo e dopo pochi minuti, vediamo un camion kamaz, finito in un lago ghiacciato, tristemente famoso con il nome Lago della Morte, ai tempi di Stalin i detenuiti venivano spogliati e buttati dentro. Il camion ha fatto un volo di circa 40 metri, non si è ribaltato, ma non sappiamo come stanno i conducenti: uno è illeso, miracolo, l'altro, il pilota è mal ridotto, frattura del braccio in più punti, mandibola fracassata, denti persi, un taglio alla testa, forse qualche costola incrinata, è infreddolito, impaurito, stravolto dal dolore e dalla fatica; viene messo nella UAZ, coperto con delle coperte che avevamo all'interno, prende una o due aspirine e si addormenta tremando; l'amico lo conforta parlando di continuo, accarezzandolo, con la testa appoggiata alla sua, in segno di amicizia, di dolore, di conforto.

Al villaggio mancano 160 km che tradotto in ore vuol dire 6 o 7 ore di pista e di scossoni, stavo male per lui ad ogni botta che la Uaz prendeva, ma a queste latitudini hanno un altro fisico, almeno così sembra, sono scolpiti nella roccia.

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Finalmente arriviamo a Tontor e lo portiamo in una piccola casetta verde dove all'interno c'è un'infermiera, un po' seccata, stava guardando un film e noi siamo arrivati propio sul più bello... fuori c'è una temperatura che sfiora i -40°. Lo fa entare, lo sistema su una panca senza storia... grandi saluti, un abbraccio sincero e la notte finisce anche per noi, in una tipica isba, dove un minestrone caldo e un letto ci aspettano.

Fuori è polare, scosto la tenda dalla finestra, il vetro è ghiacciato, non vedo la panoramica ma sento il freddo, quel freddo che ho sempre cercato, per dare sale all'avventura ed emozione al giorno che verrà.

Ojmakon, il polo del freddo, dove sono state registrate le temperature più basse del pianeta, fa freddo, come sempre il paesetto di 1500 abitanti è rintanato a casa. Raggiungiamo il cippo dove si ricorda l'evento di quei -72°: siamo ospiti da una signora, ci accoglie con il sorriso di benvenuti, entriamo in questa modesta casa, fatta di ricordi, di storie antiche e di tanto calore, la pecka, la tipica stufa russa, sbuffa di calore e di luci, un bel gattone sonnecchia, la casa è pulita, ordinata, c'è tutto quello che serve per vivere il lungo inverno siberiano.

Ci parla dei suoi problemi, sempre con il sorriso sulle labbra, ci offre del tè e dei pasticcini, poi va in cucina a prendere del burro da spalmare, ottimo, si sente il profumo di una volta; ci racconta come la vita è dura, ma poi ci si abitua, a luglio aveva fato caldo, prosegue il racconto, eravamo tutti stanchi e non vedevamo l'ora che ritornasse il nostro amato manto bianco, che tutto copre, che tutto rallegra, perchè... e fa una pausa... questa è la nostra storia.

Ritorniamo a casa, Tontor, a 40 km da Ojmakon; carichiamo in macchina 4 disperati carichi di vodka, ci ridono, si fanno fotografare in allegria, salutano l'Italia e ci invitano a ritornare...

Siamo ospiti la signora ha preparato la cena: pesce congelato con sale, qualche uova, pane, cetrioli e vodka.

L'indomani mattina partenza per Usta Nera, 280 km di pista, la tranquillità della pista è rotta al passare di un kamaz, che sbuffa in mezzo alla pista alzando due baffi bianchi di neve; dove l'unico rumore è il silenzio, sempre costante, sempre presente, sempre importante.

Dopo una 50 di km in prossimità di un fiume, un paio di pescatori, con temperature proibitive, stanno tranquillamente pescando e ci fanno provare l'ebrezza della pesca, solo che tenere il filo con l'amo a -40° non è facile, Ivan riesce a prenderne subito uno, io tento ma dopo 5 minuti lascio la presa a mani più esperte e sicure.

Ore e ore di guida, il bianco e il ghiaccio sono i nostri inseparabili compagni d'avventura, notiamo delle renne selvagge che ci seguono per qualche km poi spariscono nella taiga e non lasciano traccia, un cacciatore di volpi ci saluta, ma appena rallentiamo si è già dileguato, forse aveva paura, magari avrà pensato che fossimo poliziotti... Cala la sera, le mani sul volante si fanno più stanche, l'occhio scruta la pista, sempre attento e vigile, una mossa sbagliata, una scalata troppo brusca, una curva presa con troppa leggerezza, può essere fatale, in queste piste non passa nessuno, siamo noi e la Siberia estrema... l'emozione tocca il cielo che si fa sempre più scuro, un altro fiume ghiacciato, questa volta la monotonia è rotta da un'altra UAZ simile alla nostra, rimasta in mezzo al ghiaccio e non riesce a venirne fuori, diamo loro una mano, dopo 5 minuti tutto è risolto.

Sisliva. E via ancora per qualche ora, arriviamo a Usta Nera, città mineraria, la tristezza la fa da padrona, tutto fermo, tutto congelato, qualche ombra scura cammina per la strada deserta; cerchiamo l'hotel, per modo di dire e un garage per la nostra UAZ - soprannominata da Luciano "il trattorino" - perchè lasciando fuori le macchine a queste temperature l'indomani non partono e bisognerebbe aspettare la primavera per poi ripartire...

L'hotel ci accoglie con le solite tre porte d'ingresso molto strette, concordiamo il prezzo e ci avviamo nella nostra stanza, tre letti, due sedie, un pigliamosca, dimenticato dall'estate precedente, un bagno piccolo e non confortevole, una porta che non si chiude; ci distendiamo, il calore della stanza, la stanchezza accumulata ci coccola fino all'alba del giorno dopo.

Bevuto un tè, usciamo nella via principale, una sberla di -42° ci sveglia subito dal torpore, andiamo a visitare il Museo, un mix di storia, di gulag, di eventi passati ci vengono spiegati da una arzilla signora, dal viso furbo e l'occhio vivo: restiamo volentieri un paio d'ore a sentire la storia e i racconti persi nella notte dei tempi.

Appena usciti, notiamo la posta, cerco il miracolo, internet, entro e con molta educazione chiedo all'impiegata se c'era la possibilità di trovare internet, non finisco la frase che la bella ragazza, intenta a leggere un fotoromanzo, mi dice niet, senza alzare gli occhi; un po' deluso esco ma non si può pretendere di trovare certe comodità a queste latitudini.

Arriva sera, alle 19.00 andiamo nel ristorante che funge anche da discoteca, musica assordante, ragazzi e ragazze si scatenano in balli senza sosta, si sparge la voce... CI SONO ITALIANI IN SALA... dopo le prime titubanze, qualcuno ci avvicina e chiede di fare una foto con noi, poi ci chiamano a ballare, il più bravo è Donato, che resta in pista per una buona oretta, senza mollare mai, io e Luciano ci limitiamo ad osservare, ed è veramente bello vedere tutta questa gente che si diverte davvero: balla, ride, urla, mangia, beve e continuano a salutarci e ci invitano a ballare... siamo stanchi, ormai sono le 2 del mattino ed è ora di rincasare, domani dobbiamo fare parecchie cose.

Fuori la notte è gelida, i nostri passi rompono il silenzio, qualche finestra è ancora illuminata, sembra tutto irreale, però è bellissimo, qusta atmosfera mi fa tremare dentro, sento il fisico che risponde alla perfezione, si mangia poco, si dorme ancora meno, le giornate durano 18 ore eppure il tuo corpo regge a tutto, fortuna della salute, grande ricchezza di noi comuni mortali.

Il giorno dopo si dovrebbe partire, ma Ivan, stupendo ragazzo dal cuore d'oro, ha esagerato un po' nel mangiare... meglio fare un'altra giornata a Usta Nera per non correre rischi.

Qualche foto rubata al freddo, un tè in un bar dimenticato, una camminata nella gelida strada principale, una corsa a vedere dove c'era un gulag, ora c'è solo una croce che ricorda i morti di quell'epoca.

A cena andiamo da una signora inguscia, trasferita a Ust Nera, pollo e maccheroni: con tutta la nostra volontà i maccheroni non siamo riusciti a mangiarli, tutto il resto era ottimo.

Un'altra alba ci saluta, sempre gelida, sempre importante, la UAZ ondeggia, tra buche tole ondulè ghiacciato, tra qualche ponte traballante. Attraversiamo qualche villaggio abbandonato, solo i cani restano guardiani di questa disperazione; ci fermiamo e con la UAZ sempre accesa mangiamo un panino di lardo, pancetta, salame o salmone, il tutto preparato da Donato che si rivela importantissimo in queste cose, sa curare il tutto con la massima professionalità, speriamo che poi alla fine non ci chieda il conto... scherziamo.

Ma l'allegria è rotta dai quei poveri cani che si avvicinano con timore alla nostra macchina e ci guardano... non possiamo mangiare in questa situazione, ognuno di noi regala un pezzo di pane, di lardo, di biscotti a questi vagabondi estremi.

Fuori sembra l'alba e sono le 14.00 di pomeriggio, silenzio, non passa nessuno, il rumore del ghiaccio ci tiene compagnia; partiamo, Ivana scarica il suo mp3 con la nostra canzone preferita, una romantica canzone d'amore, in macchina cala il silenzio, assorbiamo la musica, ognuno con i suoi pensieri, ognuno con le sue emozioni, le panoramiche sembrano più dolci, la sigaretta finisce, la musica anche, il sogno però continua.

Ormai è buio pesto, finalmente arriviamo a Sumsan, altro villaggio o cittadina spettrale, sembra abbandonata invece c'è vita, ma non la vediamo: il solito taxista, che non capiamo cosa fa qui, i soliti palazzoni grigi, il solito freddo che aumenta con la stanchezza.

Giriamo 30 minuti, non riusciamo a trovare l'albergo, una specie di casa del popolo; Venvy, l'altro amico russo, esce sconsolato, non c'è posto... ma come non c'è posto, sbotto, chi vuoi che venga qui?

Salgo a vedere, tre donne, tipiche russe, mi guardano, respiro profondamente e con molta calma spiego loro, in russo, che siamo stanchi e che stiamo facendo un lavoro fotografico per Mosca... le stanze escono in un batter d'occhio.

Altrimenti dormire in macchina non sarebbe stato il massimo, ma eravamo preparati anche a questa eventualità nel caso.

Quando il gioco si fa duro... i duri... ci sono sempre!

Donato si mette a smanettare in cucina e in pochi minuti la cena è pronta; in questo hotel c'è una cucina in comune, si può usare il fornello, le posate e i piatti, poi si mette tutto come si è trovato prima.

Nel magazzino, che non è facile da trovare, abbiamo comprato del mangiare cinese, scatolette bianche anonime con dentro delle cose colorate... si aggiunge un po' d'acqua calda e pochi secondi dopo tutto galleggia... diciamo che non è il massimo, ma quando la fame batte, sembra impossibile ma tutto è buono, saporito, indispensabile.

Ognuno va nelle sue camerette, il solito letto che pende a sinistra o a destra, dipende come dormivano gli altri clienti, una sedia abbandonata in un angolo, un comodino schiacciato tra la tenda e il muro, una tenda che ha cambiato colore, un portacenere usato molto, la solita finestra ghiacciata e una panoramica da dottor Zivago all'esterno; la luce è spenta, la stanchezza la fa da padrona, l'ultima sigaretta per rivedere la giornata e poi il corpo si rilassa, la mente anche e tutto sembra un sogno.

Un tè veloce, il caffè è imbevibile, Ivan recupera la UAZ nel solito garage, ma questa volta trova una sorpresa: qualcuno involontariamente ha preso le sue chiavi, lui mago delle UAZ, stacca due fili e via, siamo di nuovo on the road. Un altro cacciatore attraversa la strada e sparisce, un paio di fagiani bianchi volano lontano spaventati dal rumore in solito della nostra UAZ van. Ci si ferma a fare benzina, siamo sui 4 km al litro e la media più o meno non supera i 40/50 km/h; Vency mi chiede se abbiamo ancora vodka in macchina, chiedo il perchè, mi dice che quello che lavora nel distributore ieri sera ha esagerato con la vodka e così deve berne un po' per farsi passare il male...?? ... rimango stupito ma dico ok, dopo 5 minuti arriva il ragazzo, che vive in un box tipo container, 24 ore su 24, dove dorme, mangia e lavora, in maniche corte, siamo sui -42°, non fa una piega, ringrazia e se ne va ciondolando la sua testa... Anche questa è la Siberia, l'impossibile diventa possibile, la cosa possibile diventa impossibile... prendere o lasciare; la Siberia non puoi capirla, devi solo confidare in lei...

Questa è la giusta legge della terra addormentata.

Stimo per raggiungere la città di Magadan, la porta dell'inferno, tristemente famosa ai tempi di Stalin per i gulag e la costruzione della strada che da Yakutz a Magadan, la cosiddetta strada delle ossa, dove milioni di prigionieri in situazioni estreme lavoravano per 14 o 16 ore al giorno a pane e acqua, così racconta la storia. Sono le 24.00, la temperatura si è alzata, siamo vicini all'oceano, nevica fortissimo, compare la scritta in blu elettrico: MAGADAN. Un brivido ci scuote dentro, è fatta, ci stringiamo le mani, siamo contenti come bambini, ci fermiamo sotto il pilone con la scritta blu, qualche foto, una sigaretta sempre accesa e poi verso la città, pulita, ordinata, tranquilla, vigile, infatti dopo un paio di km prendiamo una multa di 500 rubli per senso vietato: abituati a guidare in estrema libertà, qui bisogna rispettare le regole, siamo in Siberia estrema ma siamo in una cittadina con tutti i crismi di una città europea.

Dopo un'oretta di corse da nord a sud da ovest a est, troviamo l'hotel, che era a 50 metri da dove abbiamo preso la multa; Ivan parte alla ricerca del garage, noi ci sistemiamo nelle camere, ormai è tardi; domani faremo il punto della situazione.

Buona notte Magadan, ti abbiamo conquistato, adesso lasciaci riposare, domani ci saluteremo.

Mentre sistemo la mia borsa, penso alle conferenze che ho fatto in giro per l'Italia e una domanda che non manca mai è: perchè proprio Siberia?

Semplice, perchè è tutto maledettamente difficile!

La mattina ci svegliamo con un bel manto di neve, 40 cm circa, noi abbiamo quasi caldo, ma sappiamo che quando lasceremo Magadan per ritornare indietro, dopo un centinaio di km questa volta verso ovest, ritorneranno le nostre temperature dei -40° abbondanti. La cittadina di 12.000 abitanti sembra ovattata dal silenzio, la Uliza Lenina è la via principale che attraversa la città, qui si trovano le agenzie, le banche, qualche bar, due hotel e negozi.

Andiamo a visitare il famoso monumento del dolore: sorge su una collina, battuta dal vento, una donna di bronzo si copre il viso, dei fiori sono appoggiati vicino, il granito alto 30 metri domina la città; qui si ricorda la morte, qui si ricordano i tempi che non devono ritornare, silenzio e preghiere si confondono nella pace di questa collina che domina per non dimenticare. Silenzio, si prega.

Raggiungiamo il museo, parliamo con un donnone che finalmente parla inglese, riusciamo a capirci al volo: il direttore oggi è impegnato, domani sarà a vostra disposizione, buona giornata.

Non ci resta che aspettare domani per visitare e fare quattro chiacchiere con il direttore del museo, usciamo e ci divertiamo a scorazzare in lungo e in largo la città: offre poco, il porto è caratteristico, ma dopo un'ora è visto, si ritorna sulla via Lenina e ci sistemiamo in un piccolo bar, dove la cioccolata sa di cioccolata, parliamo del più del meno e delle future tappe del ritorno, così il tempo passa velocemente aspettando la cena.

Però Magadan, nome magico, come Timbouctu, Agadez, Varanasi, Cape Horn, nomi di viaggio, nomi leggendari, nomi che rievocano storie impossibili e noi siamo qui, a goderci questa maledetta Siberia così difficile, ma così bella che quando torni a casa dopo due giorni ti manca, strano ma ti manca, ti manca il suo sapore, il suo odore, le sue leggende.

Kak sigdà? Com'è la strada?

E noi, piccoli pellegrini, siamo su queste piste di ghiaccio... a vivere emozioni.

Adalberto

adalbertobuzzin@tin.it

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